QUANTE RESPINTE A CENTRO AREA...

07.03.2018

Rabiot è stato l'ultima vittima illustre. Prima di lui, nell'ultimo periodo, Toloi a Dortmund e Mario Rui contro la Roma. Tutti calciatori di altissimo livello, tutti caduti nel medesimo errore: cross dell'avversario e respinta scomposta verso il centro dell'area, che diventa assist involontario. Sembra impossibile che anche a certi livelli si possa incorrere in errori simili, ma tant'è. 

Perché questo avviene? Stanchezza molte volte (tutti e tre sono episodi avvenuti negli ultimi minuti di gara), scelta comportamentale inappropriata, velocità dei palloni che non sempre consente il tempo necessario a coordinarsi, superficialità nell'approccio alla palla. 

Sulla stanchezza c'è poco da dire, purtroppo può incidere. Chi allena però sa che, specie scendendo di livello o lavorando nei settori giovanili, errori simili avvengono anche nei minuti iniziali delle partite e comunque quando il minutaggio nelle gambe non è tale da giustificare certi scempi. 

Sulla scelta comportamentale ci sarebbe da aprire una parentesi ampissima. Nei tre casi citati, soltanto Rabiot sceglie di intervenire con il piede giusto, sbagliando però l'esecuzione del gesto (al limite poteva starci la vecchia e sempre buona sparata in corner, che però non si fa più, fa poco figo). Negli altri due casi sia Toloi, sia Mario Rui decidono di intervenire con il piede sbagliato. L'atalantino va di destro "per non andare di sinistro", e l'esterno di Sarri, viceversa, va di sinistro per lo stesso motivo. Da notare che è il loro piede naturale quello usato (sbagliando). E sta proprio qui il nocciolo della questione. Perché hanno fatto una scelta comportamentale così inappropriata, al punto che poi la gestualità è risultata altrettanto inefficace? Si può arrivare a giocare in serie A senza avere la padronanza di entrambi i piedi? E notare che parliamo di respinte, non di tocchi sopraffini. Esiste molta refrattarietà da parte dei calciatori, anche di livello, nel lavorare su respinte con il piede debole. Eppure le leggi della fisica e della biomeccanica sono chiare in tal senso: si respinge di sinistro un cross proveniente dalla propria sinistra e di destro uno proveniente dal lato opposto, a prescindere da quale sia il proprio piede preferito. Dirlo è semplice, farlo passare sul campo molto più complicato. 

La velocità dei palloni è sicuramente un'altra problematica rilevante, perchè la respinta è un gesto tecnico, tanto più istintivo quanto breve è il tempo di lettura e conseguente scelta comportamentale. E nei casi in cui tale scelta sia corretta serve comunque un tempo (seppur brevissimo) in cui i segmenti possano e riescano a disporsi correttamente nello spazio. Questo può valere per il gesto di Rabiot, non certo per gli altri. 

Ed è sulla superficialità che vorrei soffermarmi in chiusura. Perché tante volte è proprio quella che fa la differenza. Dando per scontato che un atleta di quel livello sappia con che piede dovrebbe respingere, c'è da chiedersi perchè finisca con il fare spesso la scelta sbagliata. Non è una questione di stanchezza, perchè proprio questa dovrebbe invece favorire la scelta più sicura, che non prevede improbabili colpi di tacco o avvitamenti, ma il quasi sempre efficace piattone. E allora? Allora tante volte c'è una sorta di rifiuto ad usare l'altro piede, che affiora in gara, magari in casi limite, ma ha una radice profonda nel percorso di formazione dell'atleta in questione. Molte volte i richiami in allenamento riguardo a scelte analoghe dimostratesi inefficaci vengono snobbati. E se non è un vero e proprio rifiuto, altrettante volte può essere proprio una scelta consapevolmente errata, per un mix di presunzione e sopravvalutazione delle proprie capacità gestuali. 

Per questi motivi la didattica in allenamento, specie nei settori giovanili, deve essere rigorosa e lasciare adito a pochi virtuosismi personali riguardo alle scelte comportamentali e gestuali nei casi specifici di respinta. E, ovviamente, va allenata con meticolosità, in modo da evitare che la superficialità sopra citata  finisca con l'essere un elemento caratterizzante del lavoro di noi allenatori, prima ancora che dei calciatori, giovani o adulti, di basso o alto livello che siano.